Ascesa di un discorso escludente

“Le ‘tradizioni’ che ci appaiono, o si pretendono, antiche hanno spesso un’origine piuttosto recente, e talvolta sono inventate di sana pianta”1.

La Lega Nord: costruzione della tradizione e ascesa

Inventare una tradizione vuol dire essere capaci di costruire riti in grado di avere notevoli impatti emotivi grazie ad un uso ridondante ed esasperato del simbolismo, al fine di far passare determinati valori e norme di comportamento che si legherebbero al passato in condizione di continuità. Inventare una tradizione vuol dire anche inventare un linguaggio che comunichi ed insieme crei una appartenenza, una comunità immaginata, non per forza definita da un ambito territoriale.

La Lega/Lega Nord storicamente ha basato tutto il suo consenso sulla costruzione di identità e tradizioni, da contrapporre ad un nemico esterno irriducibilmente Altro – il meridionale, l’immigrato. Eppure proprio questa invenzione di significati arcaici contribuisce a delineare i tratti di una identità forte e immediatamente percepibile come propria da parte di una fetta consistente dell’elettorato settentrionale prima nelle prime fasi della Lega Nord, nazionale poi nell’evoluzione dell’attuale Lega.

Questa nasce solleticando il bisogno di controllo del discorso politico e del cambiamento da parte dei suoi seguaci: l’elettore leghista è rassicurato dalla riduzione delle distanze rispetto al personale politico che lo rappresenta, il suo leader parla nelle Istituzioni e delle Istituzioni con la stessa partecipazione emotiva con cui la gente ne parlerebbe al bar o per strada, non risparmiando, se necessario, espressioni più colorite ed esplicite nei contenuti di quelle adoperate comunemente dai politici.

Oltre al riferimento alle tradizioni e alla loro dimensione storica, la Lega fa anche un massiccio uso, soprattutto nella sua fase iniziale, del vocabolario “etnico” e culturalista, a volte usato per rimarcare una specificità della gente “padana” – oggi “italiana” -, altre volte semplicemente per usare un linguaggio più “politicamente corretto” di quello razziale.

Il discorso etnico leghista, attraverso cui si designa il “noi” da difendere – prima padano, poi nordico e infine italiano – prende le mosse da un processo, squisitamente fascista, di costruzione dell’identità attraverso il richiamo mitico ed emotivo ad un passato glorioso, in cui la comunità era caratterizzata da una completa omogeneità: “Noi formiamo quindi una comunità naturale, culturale e socio-economica fondata su un condiviso patrimonio di valori, di cultura, di storia e su omogenee condizioni sociali, morali ed economiche.” Così si esprimeva Bossi nel settembre del 1996 a Venezia, dichiarando l’indipendenza e la sovranità della Padania.

Il discorso politico della Lega – e degli altri poli di potere che vi hanno aderito e lo hanno alimentato – ha potuto facilmente mutare la definizione del Noi, delle sue tradizioni e degli interessi di cui era portatore attraverso una dialettica che vede “il passato [come] una sorta di pappa omogeneizzata che si può modellare […] nel modo più utile, […] in cui esistono valori non discutibili, indicati da parole con l’iniziale maiuscola»2. I concetti di Tradizione, Razza, Famiglia, Patria, rappresentano “‘idee senza parole’: retoriche del sublime, monumentali e celebrative che legittimano la sfera politica riferendosi al passato e imitando il linguaggio del sacro. Alludono e non spiegano nulla.3. La storia della Lega è infatti una storia mutevole, che cambia mano a mano che si modificano i suoi interlocutori sociali e politici, e che mostra in modo esemplare i processi di costruzione storica e sociale delle identità collettive, dell’etnicità e dell’individuazione di un nemico.

Tuttavia, l’invenzione della tradizione padana, l’autoidentificazione etnica, l’etnicizzazione – razzializzazione per uscire dal politically correct – di chiunque appaia come straniero non è solo un vuoto ideologismo. Il richiamo all’etnicità finisce per avere una potente funzione performativa, offrendo orizzonte simbolico e identitario anche a chi non ha gli stessi interessi di classe di quella minoranza ricca.

Ma il fatto che l’etnicità sia un artefatto, un modello, un criterio di identificazione, non significa che le categorie che definisce siano vuote: esse, al contrario sono investite di una notevole carica affettiva ed emotiva e percepite come un dato della realtà. Insomma, per quanto sia una costruzione ideologica, l’etnicità non è certo un’illusione poiché ha efficacia sociale: pur essendo una rappresentazione, ha una capacità performativa in grado di travalicare le differenze di classe e di identità contrapposte esplicitate in un Noi che si oppone a un Loro.

Il processo di creazione del Noi della Lega passa storicamente per l’individuazione di due nemici: da una parte il potente portatore di ambizioni coloniali, dall’altra il povero/parassita che, incoraggiato dal potente, rappresenta la minaccia di contaminazione della comunità e di espropriazione delle risorse dei “giusti”, dei “lavoratori”. La retorica leghista ha così facilmente sostituito l’Unione Europea – la Troika, i burocrati, i tecnocrati – allo Stato italiano, rappresentato da “Roma Ladrona”, e gli immigrati – clandestini, extracomunitari – ai “meridionali/terroni”. La retorica leghista cambia i propri soggetti e i propri nemici a seconda del contesto politico e delle alleanze tentando di volta in volta di giustificare tali cambiamenti con nuove riappropriazioni di continuità storiche e con l’invenzione di nuovi riti e nuove simbologie. Inizialmente il Meridione d’Italia viene identificato come “motivazione” della dissipazione effettuata da parte dello stato centralista che sperpererebbe denaro prelevato dal produttivo Nord per farlo finire in mano ad una politica assistenzialista diffusa nel Sud; mutatis mutandis, il discorso viene riproposto in relazione agli sbarchi e all’accoglienza, finanziati da uno Stato debole che non riesce a “fare la voce grossa” e si lascia sottomettere da un’Unione Europea che impone le politiche migratorie, di cui l’Italia è l’unica a pagare le conseguenze in termini economici, ma anche di “contaminazione” culturale e biologica. È di fronte a questa contaminazione che viene sbandierato il concetto di “sopravvivenza” etnica, culturale ed economica.

Le condizioni storiche che permettono l’affermarsi di discorsi razzisti e gli effetti di verità che tali discorsi producono.

Il fenomeno dell’immigrazione in Italia è stato spesso trattato come un’emergenza da arginare e gli arrivi sono stati tramutati in “invasioni”. Nonostante la prevedibilità degli arrivi, i flussi migratori sono sempre percepiti come “ondate” incontrollabili e il momento dello sbarco ha assunto un fondamentale significato simbolico, rappresentando al tempo stesso l’invasione e l’emergenza umanitaria, a cui corrisponde la figura dell’immigrato a un tempo minacciosa e patetica. Per far fronte all’emergenza degli sbarchi sono stati disposti, nel corso dei decenni, meccanismi eccezionali di gestione del fenomeno, rodati e consuetudinari, ma non politiche di accoglienza e soluzioni strutturali alla tragedia dei viaggi in mare. Come fa notare Sciurba, “concentrarsi sull’emergenza degli sbarchi, e sulla conseguente necessità di accoglienza degli sbarcati, consente di fermarsi alla semplice realtà di fatto costituita appunto dalla presenza dei migranti appena arrivati sulla banchina del porto, considerandoli alla stregua di eventi strutturalmente prodotti dalle onde del mare”4. Questa gestione è stata alimentata da tutti i governi che si sono susseguiti dagli anni Novanta ad oggi. Attorno all’emergenza si è addensata la nube all’interno della quale si delineano le prospettive di “soluzione finale”. Solo la necessità di una soluzione “a qualunque costo” può infatti giustificare le azioni portate avanti da Minniti, che con gli accordi con la Libia ha condannato migliaia di migranti in un “lager a cielo aperto”, e l’acclamata decisione di Salvini di chiudere i porti. La creazione dell’emergenza, la percezione che sia a rischio la sopravvivenza di un Noi ridotto all’osso dell’appartenenza di sangue – un Noi ridotto a “razza” – permette di far prosperare le ideologie razziste, al centro delle quali vi è sempre un discorso che valorizza le differenze gerarchizzandole, radicalizzandole, assolutizzandole o naturalizzandole.

In questo contesto si è innescata la pericolosa partita della sopravvivenza, a cui hanno giocato tutte le forze in campo: da un lato chi si batte per la sopravvivenza di presunte identità culturali minacciate dalla contaminazione, dall’altro chi combatte per la sopravvivenza dei corpi migranti, minacciati dalle onde del mare e dai torturatori delle carceri libiche. Il discorso umanitario, che difende la necessità di salvare le vite umane si è scontrato con un discorso che è diventato sempre più potente: la “nostra” vita, minacciata dalla disoccupazione, dalla pauperizzazione, dalla devastazione del welfare, è più importante, non si possono sprecare risorse per salvare chi potrebbe rimanere a casa propria.

La rappresentazione del “profugo disperato”, ridotto a vittima da salvare dalle onde del mare, comporta la creazione di un soggetto che non ha altre qualità se non quelle di essere un uomo: la sua colpa è di essere uscito dalla propria comunità, perdendo con il movimento la difesa del “branco” ed esponendosi agli attacchi di una società altra che non lo vuole ma che può fare di lui/lei quello che vuole. È inevitabile pensare a quanto diceva Arendt rispetto ai profughi della Seconda guerra mondiale: “un uomo che non è altro che un uomo sembra aver perso le qualità che spingevano gli altri a trattarlo come un proprio simile5.

A questo punto siamo arrivati grazie ai discorsi leghisti di costruzione del nemico, che sono stati paradossalmente rafforzati da un discorso umanitario che, in quanto tale, riduce le persone a vite da salvare.

Sembra impensabile ormai restituire, nell’immaginario collettivo, alle persone che migrano la capacità di avere desideri, volontà, progetti, riportare il discorso politico a una dimensione di diritti che vada al di là del diritto alla sopravvivenza, al diritto di essere salvati. Sembra impensabile parlare di un diritto a decidere del proprio destino, del diritto a vivere bene, del diritto alla felicità per le persone che si spostano. Tanto sono forti i discorsi razzisti e i discorsi umanitari, da averci fatto quasi dimenticare la volontà, la scelta, la capacità di prendere in mano la propria vita che sarebbero altrimenti evidenti in una persona che intraprende un viaggio per vivere altrove parte della propria esistenza. Tanto sono forti questi discorsi da averci fatto quasi dimenticare che alla base di questi viaggi in mare vi è una delle più grandi ingiustizie dei nostri tempi: la possibilità solo per alcuni di muoversi in un mondo fortemente interconnesso, in cui ogni luogo vive, sperimenta, riflette quello che succede altrove.

Ma alcuni, fra cui chi conosce e frequenta Laboratorio 53, hanno un privilegio: il privilegio dell’incontro, della conoscenza, del tempo dell’ascolto e dello scambio. La possibilità della parola – la parola-lingua, la parola-corpo, la parola-musica e immagine, la parola città e bene comune – fra persone. Questo ci permette di non dimenticare, di vedere chiaramente le forze politiche e sociali, antiche e contemporanee, che hanno determinato questa situazione di cupa ineguaglianza fra le persone.

Questo ci permette di rivendicare, oggi con più forza, il diritto alla libertà di movimento per tutti e tutte, il diritto a viaggiare in sicurezza, il diritto ad andare e tornare o rimanere. Il diritto a essere persone – uomini e donne, giovani, adulti e anziani, lavoratori e disoccupati, cittadini di questa terra – a mostrare o non mostrare chi siamo, a decidere la nostra rappresentazione di noi stessi, mutevole, complessa e cangiante come solo l’identità può essere.

Sentiamo oggi la necessità di schierarci, di prendere una posizione chiara contro i tentativi di legittimare la demonizzazione dello straniero al solo scopo di legittimare qualsiasi comportamento o atteggiamento dis-umano che trova le sue radici profonde nelle insicurezze della precarietà di vita che quotidianamente affrontiamo. Rifiutiamo il silenzio e l’indifferenza e rivendichiamo l’incontro, l’intreccio di vite, spazi e respiri come unico terreno possibile per la costruzione di un mondo che esca dalla logica mors tua vita mea per fondare una comunità che sceglie di cercare insieme il benessere.

1 Eric J. Hobsbawn, L’invenzione della tradizione, Einaudi 1987, p.3.

2 Furio Jesi, Cultura di destra, 1979.

3 Wu Ming, https://www.wumingfoundation.com/giap/2013/01/il-piu-odiato-dai-fascisti-conversazione-su-furio-jesi/

4 Sciurba, Campi di forza, 2009, p. 156.

5 Cit, Arendt, 2004, p. 416.

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