Il lavoro sociale con richiedenti e titolari di protezione internazionale ha una peculiarità: i migranti forzati infatti sono vittime della violenza di un uomo o di un apparato politico, e ci mettono di fronte alla difficile sfida che apre la violenta, imposta e decisa rottura della relazione uomo-uomo, uomo-uomini. È proprio su questa relazione, allora, sul suo rinnovamento o sulla sua rigenerazione che il lavoro di chi accoglie deve concentrarsi.
Entrando in contatto con i migranti forzati noi abitiamo un luogo delicatissimo della relazione interpersonale: possiamo accogliere, dare parola all’altro, o possiamo riattualizzare la violenza. Accogliere significa per noi innanzitutto creare un ambiente accogliente, che dia la possibilità a chi si incontra di sciogliere l’estraneità, lo spaesamento, il silenzio, la diffidenza. Accogliere qualcuno è “fare casa” insieme, trovarsi a casa nel medesimo luogo, affidarsi l’uno all’altro. Accogliere, quindi, è per noi in primo luogo essere accolti.
D’altro canto il migrante forzato non è solo una vittima, succube del suo doloroso passato. Egli è in primo luogo un soggetto: un uomo, una donna, un togolese o un curdo, un sarto, un infermiere, un padre o un figlio, un attivista politico o un analfabeta. Queste soggettività ci portano mondi radicalmente diversi che devono però trovare un tempo ed un luogo dove essere ascoltati e compresi realmente, cosa che nella quotidianità succede raramente e che la continua guerra mediatica contro i migranti rende sempre più difficile, creando una diffidenza generalizzata e socialmente diffusa nei loro confronti.
Le difficoltà che un richiedente asilo incontra durante il suo percorso migratorio forzato sono numerosissime – dal senso di sradicamento ai vissuti di lutto, dal cambiamento culturale alla precarietà abitativa e lavorativa. In questo contesto, le attitudini negative della comunità ospitante giocano un ruolo di non poco conto nella costruzione della sua sofferenza. E’ necessario allora interrogare le variabili del contesto di accoglienza e costruire un modo nuovo di accogliere.
Come invita a riflettere l’etnopsichiatra Roberto Beneduce, per il migrante forzato i sentimenti di nostalgia non sono soltanto un melanconico abbandono a un tempo passato ma costituiscono soprattutto un’ostinata forma di resistenza al contesto ambientale avverso e sfavorevole del tempo presente: un ambiente spesso ostile e sordo alla singolarità individuale, che viene annegata in categorie etniche stereotipate. L’appello alla memoria funziona allora come una risposta ad un deficit di identità, una modalità critica di relazione con il contesto presente.
Per superare questa particolare forma di emarginazione, legata al trauma della migrazione forzata ma anche al difficile incontro con una realtà del tutto nuova e spesso ostile, l’impegno di Laboratorio 53 è quello di costruire un percorso condiviso che, attraverso processi di socializzazione e servizi di assistenza sociale e legale, offra la possibilità di scoprire e di esplorare modalità nuove di espressione della propria soggettività e dei propri bisogni, attivando un virtuoso processo di empowerment della persona, una rinnovata autonomia ed una nuova apertura alle relazioni sociali e alla città.
Tutte le nostre attività, allora, dal gruppo di accoglienza ai punti di segretariato sociale e di orientamento alla formazione e al lavoro, sono guidate da un presupposto metodologico: non rendere i partecipanti oggetto di assistenza e/o insegnamento ma soggetti attivi e creativi in diversi contesti aperti, lavorando sul concetto di accoglienza come espresso precedentemente.
Ci siamo trovati in questi ultimi anni ad assistere a un doloroso paradosso seguendo i rifugiati nei loro difficili percorsi dal riconoscimento dello status all’assistenza sanitaria e psicologica fino alla ricerca del lavoro: più tempo i rifugiati soggiornano in Italia, meno conoscono la lingua, la città e la società italiana. Abbiamo intuito, quindi, l’esistenza di una lacuna: quella della motivazione, prima presente e forte, ma nel tempo sempre più debole. Da qui nasce l’esigenza di comporre e articolare un sentimento, quel così importante sentirsi a casa che nutre la confidenza in sé e la motivazione a ricominciare. Sentirsi a casa in un posto nel mondo e in particolare in questo qui – Roma, Italia – che ci è toccato ed è toccato come punto di arrivo ai richiedenti e titolari di protezione internazionale ai quali ci rivolgiamo.
Riteniamo inoltre di fondamentale importanza, proprio per la ri-conquista di quell’autonomia in parte spezzata dalla migrazione forzata, esplorare insieme la città, costruire insieme nuove mappe che portino ad una conoscenza degli spazi e dei servizi che il contesto urbano – frammentario e disorientante – offre. Ciò costituisce anche un modo per uscire dai soliti “luoghi dell’immigrazione”, scoprendo una Roma diversa, tramite la conoscenza delle varie realtà che vi operano, sia quelle riguardanti strettamente l’assistenza nei confronti dei migranti, che quelle rivolte a tutta la cittadinanza, in modo da favorire un’integrazione sociale più consapevole e produttiva.
Lavorare sul senso di “casa” e di “memoria del tempo presente” non è immaginare o fantasticare su una pacificazione impossibile; è piuttosto trovare un luogo – inizialmente straniero, quello ospitante – in cui si possa restituire quello che si è dopo che si è stati attraversati dall’esperienza della violenza intenzionale. Spazio in cui si realizzi, scrive l’etnopsichiatra Tobie Nathan, da qualche parte e in qualche modo una “eccedenza di densità” del proprio vissuto, che sia comunicabile e testimoniabile ad una comunità. Eccedenza che ricomprende l’esilio non o non solo in termini di privazione ma anche e soprattutto nella direzione di un di più – vivere più di una casa, più di una lingua, più di una cultura, più di un legame – delineando così un futuro possibile in faccia a uno, quello da cui si fugge, invivibile.