Mai ci saremmo aspettati di leggere apprezzamenti sul Cara di Castelnuovo di Porto come esempio di “integrazione”. Nel corso di questi 10 anni ne abbiamo osservato le trasformazioni, i cambi di gestione, le contraddizioni e la disumanità attraverso i racconti di chi ci passava quotidianamente le giornate, inesorabilmente una uguale all’altra, per mesi se non anni. Un casermone isolato, a 30 km da Roma e a 7 km dal centro abitato più vicino, tra recinzioni e campagna, appena sotto l’autostrada. Una mattonella di undicimila metri quadrati e 177 stanze può essere un modello di accoglienza? Pensato per brevi periodi di accoglienza per adempiere le pratiche identificative, per molti richiedenti asilo è rimasto luogo di vita per anni, in attesa di un permesso di soggiorno che non arrivava mai, senza nessuna prospettiva di inclusione sociale. Un ghetto che per anni ha costruito marginalità, secondo un modello che ha ammassato i migranti in spazi isolati e lontani dalla popolazione. Ci ricordiamo della presenza del filo spinato, dei carabinieri e dei militari dentro e fuori, neanche fosse un centro di detenzione di alta sicurezza. Badge per entrare e uscire, espulsioni in caso di assenze ingiustificate. Ci ricordiamo i racconti sul cibo avariato, il pocket money che non arrivava, e quando arrivava consisteva in sigarette o tessere telefoniche. Le ore di attesa per uno spazzolino o una medicina.Ci ricordiamo i racconti sulla prostituzione maschile e femminile attorno al CARA, di cui tanti italiani hanno approfittato: corpi a pochi soldi a cui nessuno interessava.Ci ricordiamo dei chilometri percorsi a piedi per raggiungere un mezzo per arrivare a Roma. Dopo le 19.00, nessun mezzo porta al CARA, si torna percorrendo 4 kilometri al buio di una strada provinciale.Ci ricordiamo anni di abbandono, con servizi e personale ridotti al minimo, mediatori messi a sedare le rivolte. Persone lasciate a se stesse, con le ferite ancora brucianti delle sofferenze vissute nei paesi di origine, in quelli di transito, in un sistema di accoglienza che disintegra. Ci ricordiamo le continue proteste represse brutalmente.Ci ricordiamo le facce sbalordite dei funzionari di polizia quando chiedevamo il numero di persone che vivevano al CARA: impossibile da sapere. Sovraffollamento cronico, accampamenti più che stanze. All’interno famiglie e singoli si autorganizzavano l’esistenza con piccoli business. Nei corridoi mercati dove comprare tutto ciò che serve per cucinare, ricaricare il telefono, tagliare i capelli o costruire una cucina fai da te. Si perché il cibo è così scadente che molti decidono di cucinarsi in stanza nonostante i rischi.Ci ricordiamo i nomi degli enti gestori, che su quel luogo hanno lucrato: GEPSA – società francese che gestisce centri di detenzione in tutta Europa -, ACUARINTO, SYNERGASIA, AUXILIUM. Tutte raccontando che in quel posto si faceva accoglienza. Ma 800 persone isolate non fa né accoglienza né inclusione.Ci ricordiamo dei trasferimenti improvvisi verso destinazioni sconosciute, senza nessuna prospettiva, ogni volta che il CARA cambiava destinazione d’uso. Ebbene sì, non è la prima volta che questo succede, chi conosce il CARA lo sa. Ci ricordiamo dell’assoluta impermeabilità del posto. Quasi impossibile entrarvi, nonostante le centinaia di richieste inviate alla Prefettura. In questi dieci anni nessun politico ha messo in discussione questo modello, per questo il clamore che si sta creando appare paradossale. Una sinistra istituzionale che nell’ambito della migrazione non ha fatto altro che rincorrere la destra, oggi si trova a difendere il CARA, insieme a parroci e sindaco. Una sinistra che non ha mai voluto o saputo creare una narrazione differente sulle migrazioni, sulle politiche di accoglienza ed inclusione, oggi riesce solo a dire il contrario di quello che dice Salvini.Il paradosso è servito. Salvini chiude il CARA di Castelnuovo di Porto – chiusura che in tanti abbiamo chiesto in questi anni, perché luogo di spersonalizzazione e desolazione – al grido di ridicoli slogan, basta mangiatoie, la pacchia è finita. È chiaro, i trasferimenti improvvisi, le espulsioni che lasciano le persone per strada sono da condannare. Come abbiamo fatto in altre occasioni, ribadiamo che le vite non sono pacchi postali. Tuttavia, difendendo il diritto di ognuno di poter decidere della sua vita e di non essere spedito da un luogo all’altro senza preavviso, non sostituiamo nelle nostre menti l’immagine del CARA ricevuta dai racconti di tanti, con la perversa trasfigurazione proposta in questi giorni che trasforma il CARA in modello di accoglienza.Invitiamo tutte le persone che in questa occasione hanno mostrato e manifestato una preziosa indignazione per quanto sta accadendo a guardare alla complessa realtà che il mondo dell’accoglienza rappresenta. Lavoriamo per inserire in una prospettiva storica quello che avviene oggi, creando un fronte unito ma senza appiattirci su posizioni che vogliono cancellare la memoria e i saperi critici che negli anni si sono sviluppati attorno al tema dell’accoglienza, ricordando e ricostruendo i cammini che hanno portato nel corso di decenni alla deumanizzazione e reificazione dei cittadini stranieri, che hanno permesso di trattarli, oggi come ieri, come pacchi postali.Cominciamo a costruire una rete di solidarietà che parli di disobbedienza, senza remora e titubanza alcuna. Come diceva Brecht, quando l’ingiustizia diventa legge, la resistenza diventa dovere.
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