Dopo le prime settimane di esplorazione in cui si è cercato di rafforzare l’unità facilitando la conoscenza reciproca, è arrivato il momento per il gruppo AMA di procedere nel cammino di discussione e scambio iniziato a ottobre.
Iniziamo così a sondare il terreno provando a capire quali sono i temi che più interessano il gruppo:
al primo posto c’è il lavoro (e cos’altro poteva occupare, oltre al permesso di soggiorno, i pensieri di persone che qui stanno provando a ricostruirsi una vita), a seguire ci sono il rapporto immigrati/italiani, l’amore, la conoscenza della città e le alternative gratuite per il divertimento e la cultura.
Correttezza vorrebbe che si iniziasse col parlare proprio dal lavoro ma questo non è possibile, sono i giorni dell’assalto degli abitanti di Tor Sapienza al centro d’accoglienza del quartiere, i giorni delle marce anti-degrado che presto si trasformeranno in manifestazioni anti-tutti-quelli-che-sono-diversi-da-noi, i giorni delle bombe carta e delle pietre lanciate per spingere alla chiusura il centro SPRAR di via Giorgio Morandi. Tutto questo non si può nascondere, o mettere da parte, ecco perché decidiamo di iniziare a parlare col gruppo proprio del rapporto tra italiani e stranieri.
Lo facciamo iniziando dai fatti di via Giorgio Morandi, dalle voci dei manifestanti che urlano contro i negri e gli zingari, da quello che quelle voci ci trasmettono: rabbia, paura, ignoranza, abbandono. Parole che escono fuori in un brain storming collettivo in cui tutti siamo sullo stesso piano e attraverso il quale tutti cerchiamo di capire le motivazioni di un odio incomprensibile.
Continuiamo a cercare di capire quali sono gli italiani che conosciamo, quali di questi riteniamo persone corrette e quali invece persone dalle quali tenersi alla larga, ragioniamo sulla consapevolezza di non poter sempre fuggire di fronte alle angherie, della necessità di trovare modalità per affrontare le difficoltà quotidiane che caratterizzano molti rapporti italiani-immigrati.
Decidiamo che per comprendere questa complessità bisogna optare per uno strumento forte che aiuti a trovare modalità nuove e interessanti per superare i problemi, scegliamo perciò il TDO, il Teatro Dell’Oppresso.
Mettiamo in scena le nostre più semplici ma pervasive difficoltà: cosa dico alla signora che per strada mi urla addosso soltanto perché le ho chiesto un’informazione? E cosa posso fare con l’operatore del centro nel quale vivo che non mi permette di cucinare in camera o di uscire un po’ la sera?
Problematiche sollevate da chi si ritrova a vivere a migliaia di chilometri da casa, senza alcuna rete sociale di supporto, con l’universo intero racchiuso dalle quattro mura del proprio centro d’accoglienza, o campo, come lo chiamano, che con la parola accoglienza ha poco a che fare.
Il gruppo si appassiona a queste messinscene, interviene per cambiare la storia aiutando l’oppresso contro l’oppressore, l’immigrato contro il responsabile del centro e le soluzioni trovate sono sempre geniali e nuove: la gentilezza usata come arma contro la violenza verbale, il gruppo che collabora insieme per risolvere la problematica del singolo, sia esso in un centro d’accoglienza o su un autobus, ci si rende lentamente conto che non abbiamo bisogno di un intervento esterno, di un aiuto costante, per risolvere i nostri problemi ma che anzi, se si ragiona insieme, le soluzioni le possiamo trovare noi stessi, dentro noi stessi.
Con questi primi incontri il gruppo ha cominciato a muovere i suoi primi passi e, come un sasso su un pendio, compatto comincia a rotolare prendendo lentamente velocità, spostandosi lungo un percorso di cui è difficile vedere la fine ma che comunque, come tutti i processi d’esplorazione, porterà sicuramente ad una crescita collettiva.