Una giornata al gruppo di accoglienza

Tazze nuove e biscotti iniziano il pomeriggio. Sono ancora da sola. Arriva Addis, sorriso amico, Silvia mi chiama perché il treno non passa, Marta entra zitta zitta e così Luca, che appena seduto intavola grandi discorsi. Il filo c’è, è il nome della nostra associazione, Laboratorio 53, perché laboratorio e perché 53. E che significa lavorare con richiedenti asilo e rifugiati. Nulla è lasciato al caso, la cura del Piccolo principe per le parole ci scalda. Laboratorio 53 siamo noi e questo noi è frutto di una scelta: lavorare con i migranti. Chi desidera questa decisione, chi la prende o la prenderà, fa parte di noi. L’unica differenza tra noi e gli altri sta nella scelta, perché gruppo RAR è un gruppo che per caso e per fortuna si è incontrato, agisce, cresce e decresce, parla e si inventa. Laboratorio 53 fa in più di questo caso un impegno.

Addis è un adulto bambino, un uomo che conserva i tratti, la fedeltà, la tenacia e la ricerca di gesti precisi di un bambino nei suoi primi passi verso il mondo. Come un bambino alcune cose che succedono sembrano scivolargli addosso, ma in realtà non dimentica. Ammira le tazze nuove mentre ascolta annuendo al mio tentativo di spiegare perché lavoro con i richiedenti asilo e quanto imparo da loro. Imparo ad accogliere il segreto di ogni singola vita, a vivere nel presente dell’incontro il mistero che la regge. E lo imparo proprio non chiedendo quello che per dovere professionale o stolta curiosità è qui in Italia continuamente interrogato, scoperto, denudato, scritto, certificato, provato o non provato: il loro passato.

Donna congolese, rifugiata riconosciuta, testimonial in qualche manifestazione da qualche parte, Addis  l’ascolta: “Ora che sono rifugiata, che sono protetta da questo Stato e vivo al sicuro, non ho più niente da proteggere. Sono ormai vuota, scoperta”. In balia di tutti quelli che sanno le violenze subite, in balia della Questura in cui ho dovuto raccontare la mia storia, in balia degli avvocati che me l’hanno fatta correggere e ripetere, in balia della Commissione – perfetti sconosciuti che hanno giudicato la verità delle violenze subite, file di dettagli sul mio corpo come termometro di veridicità. Serviva una vittima e lo sono diventata. Questo racconta Addis, lui che un pò di ritegno se l’è conservato, è riuscito a non piangere e a dire quello che voleva dire in Commissione, non quello che la Commissione voleva o doveva sentirsi dire. Ha in mano il diniego perché non s’è consegnato, ha custodito il segreto così come lo custodisce con noi. Ora non può prendere l’autobus perché un semplice controllore a cui gira storto può abusare del suo potere e chiamare le forze dell’ordine, facile in questi giorni ritrovarsi in un CPT prima di aver capito perché.

Addis ha l’espulsione in mano, un riesame iniziato per favore un ricorso in contemporanea, senza avere ancora nulla con sé oltre al foglio di via. La donna rifugiata aveva ragione, lei coi suoi documenti e un lavoro e probabilmente una casa. Io ho fatto gli stessi giri, la Questura di Roma  la conosciamo bene, vivo in un centro di accoglienza “per favore”, dato che non ho più documenti e per legge sono uscito di qui, non esisto quindi più né qui né là. Per favore mangio pasta e pane nel centro e per sfavore m’è venuto il diabete, per favore alcuni giorni riesco a prepararmi un’insalata di cetrioli cipolla e peperoni con tanto piccante invece di continuare a mangiare pasta che peggiora il diabete. Ma il cioccolato mi piace troppo, quando me lo regalano non ci rinuncio neanche morto. Non faccio più sport, non posso più lavorare, non ho più un soldo, dimentico tutto quello che sapevo fare. Quando cambi mondo tutto cambia, il freddo il caldo la vista il metabolismo la pelle, la fiducia in te.

Metti un giorno per caso arrivi in un altro mondo in cui qualcuno che non conosci ha deciso che non puoi stare e sei senza soldi, lingua, cibo, casa. Aspetti che qualcuno che ti ha promesso un favore si ricordi di te. Quel qualcuno può chiamarsi Caritas, S. Egidio, Centro Astalli, Commissione, Medici contro la tortura, Laboratorio 53, Avvocato, Questore, Amico, Dio. Addis ha un filo diretto col suo Dio, in fondo lo sa che qualcuno si ricorda di lui nonostante noi, da qui forse il fatto che raramente s’abbatte, una insormontabile serenità lo abbraccia nonostante tutto.

Nei tavoloni della biblioteca noi mediatori culturali, antropologi, assistenti sociali e psicologi ecc. ecc. studiamo che significa tortura e sottolineiamo le parole del torturatore che fanno a pezzi la persona: “Niente, nelle mie mani tu non sei niente”. Specchio riflesso del vivere in un luogo che canta facilmente i diritti dell’uomo e che in vetrina aborrisce la tortura: Addis qui da noi tu sei niente, sei nelle nostre mani e vivi grazie a noi, ringrazia inchinati e aspetta.

Tutto questo non si svela facilmente, meglio stare zitti e rispettare i confini. Alì ride quando pensa alla prima volta che è entrato in una chiesa valdese e una signora che stava seduta s’è voltata verso di lui, l’ha guardato e m’ha chiesto: “da dove sei entrato?”, “dalla porta sono entrato, come tutti”, “no come sei entrato in Italia”, “da Fiumicino, come tanti”. Sapete, Fiumicino esiste anche per il Sud del mondo. Così Addis che quando ha detto a un tipo per strada che viene dalla Guinea è stato interrogato su come è finito in Italia “Con l’aereo, normale” e il tipo gli ha risposto “Ma perché l’aereo c’è anche laggiù da voi?”. La conversazione s’è interrotta, Mohamed s’è dato alla fuga mille leghe sopra il cielo.  E noi a ridere con lui, prepariamo qualcosa da mangiare e continuiamo ad ascoltare.

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